Duché Aîné & Cié (attribuito a)
Scialle Chinese Fairy Tale, Parigi 1849-1855
Disegno à grand pivot, con riserva bianca
Twill 3/1, lanciato e cimato, con ordito di seta e trame di lana
Bibliografia: V. Reilly, The Official Illustrated History : the Paisley Pattern, Glasgow 1987, pp. 80-81
Il titolo fu dato a uno scialle identico a quello in mostra dal suo proprietario, Robert Cochran, Provost di Paisley dal 1885 al 1888 e collezionista di scialli cashmere da lui considerati di manifattura locale, attribuzione più tardi condivisa anche da Alice Mackrell[1] e confutata per la prima volta da Valerie Reilly nel 1987[2]. Nel 1964 William McIntyre donò i 115 scialli della collezione Cochran al Paisley Museum and Art Gallery, dove il “Chinese Fairy Tale” è ancora conservato[3].
L’analisi tecnica di quel reperto, condotta dal curatore del Paisley Museum, il dr. Dan Coughlan nell’agosto 2024[4], corrisponde a quella effettuata sul reperto di cui si scrive[5], da cui deduciamo che i due scialli non solo hanno identico disegno e schema cromatico, ma che sono stati tessuti sullo stesso telaio, uno dopo l’altro e che sono gli unici due esistenti, oppure due sui quattro o massimo sei, tessuti[6] in un’unica tornata.
In mancanza di documentazione ulteriore sul reperto conservato a Paisley e non avendo alcuna informazione sullo scialle qui presentato, il cui proprietario precedente sapeva solo che era appartenuto a un pro-zio che viveva a Roma e che “collezionava cineserie”, possiamo procedere per confronti con la tecnica di tessitura di scialli dei quali si hanno notizie documentate, per poi procedere alla lettura del disegno.
L’armatura tessile, l’alta qualità della lana in trama, l’impiego di seta in ordito, la tintura “chiné” di quest’ultimo e i dodici colori impiegati indicano una delle più raffinate manifatture europee della metà del XIX secolo, tutte attive a Parigi. Queste, a partire dal terzo decennio dell’Ottocento, immettevano sul mercato scialli tecnicamente diversi da quelli indiani, molto più raffinati di quelli, ma che si mantenevano fedeli al motivo principale dello scialle originario del Kashmir, il boteh. A partire dagli anni Quaranta del secolo le manifatture parigine avevano ormai fatto proprio il boteh, con licenza di modifiche e stilizzazioni a volte ardite, in composizioni a schema più ricco e “pieno”, grazie a grandi disegnatori come Amedée Couder, Antony Berrus e numerosi altri che lavoravano direttamente per le ditte di tessitura specializzata in “Châles de l’Inde”.
Le caratteristiche tecniche e materiche dello scialle qui presentato indicano una produzione parigina databile tra il 1839 e il 1855, anni in cui alcune ditte di quella città tesserono scialli particolarmente raffinati in soli due esemplari non tanto per il mercato, quanto per mandarli alle grandi esposizioni internazionali che si tennero in quegli anni tra Parigi e Londra, dove spesso ricevettero il primo premio della loro categoria.
Tra gli scialli premiati ve ne sono due presentati dalla ditta Deneirouse alla mostra parigina del 1849 e a quella londinese del 1851 dove ricevettero la medaglia d’oro[7]. Di questi scialli mancano le immagini, ma esiste la descrizione che risulta davvero molto simile a quella del nostro reperto per quanto riguarda il tema del disegno, la struttura a pivot, la riserva bianca, l’ordito tinto con la tecnica “chiné”, i 12 colori totali. Inoltre, il premio a Deneirouse fu criticato da un giurato inglese che lo considerò troppo lontano dallo spirito indiano, in quanto comprendeva “cineserie, chioschi, scalinate…”[8], e anche questi dettagli sembrano confermare la somiglianza con il nostro reperto. Tuttavia le differenze tecniche riportate dalla giuria londinese, il cui resoconto è stato meticolosamente analizzato da Arlene Cooper nel 2011, sono tali[9] da impedirci di identificare la nostra chinoiserie con quella di Deneirouse premiata nel 1849.
Se la struttura tecnica e materica dello scialle qui presentato lo collocano inequivocabilmente nella produzione parigina degli anni 1840-1855, il tema del disegno è assolutamente desueto nell’ambito della iconografia dello scialle cashmere, sia per l’impianto narrativo, sia per il soggetto chinoiserie.
La tematica “narrativa” era già stata attuata in pochi e raffinati esemplari come il “Denderah”, tessuto da Hébert di Parigi nel 1841, dove è rappresentato lo zodiaco asportato dal tempio egiziano di Denderah, con l’aggiunta di esemplari diversi allora visibili presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, riconosciuti da Monique Lévi-Strauss[10], e di cui si conoscono solo due esemplari[11]. Un altro esempio altrettanto raro è quello dello scialle “Nou-rouz”, disegnato da Amedée Couder e tessuto da Gaussen nel 1839, che mostra una processione di personaggi persiani nel corso della festività del nuovo anno, di cui si conoscono due soli esemplari originali[12]. Solo uno scialle cashmere conservato al Metropolitan Museum presenta un disegno a totale soggetto chinoiserie, comunque parecchio diverso dal nostro[13], il quale non sembra neppure ispirato ai famosi “dessins Chinois” dell’olandese Peters Schenk (1725) o dei francesi Fresne (1735), Peyrotte (1740) o Boucher (1742), a carattere assolutamente rococò. Quella del nostro scialle è una cineseria decisamente ottocentesca, meglio informata sulla realtà cinese[14] e al contempo ancorata allo stile delle favole tradizionali della filosofia morale di quel paese. A questo ultimo tema appartiene la collocazione della scena nel “Grande Giardino all’Ovest”, circondato da mura (esattamente come il pairidaeza persiano e, in parte, il paradiso terrestre cristiano), ricco di piante e fiori opulenti, pavoni, uccelli del paradiso e farfalle giganti, dove una lunga scalinata conduce, in sequenza, a due padiglioni dotati di multicolori e riavvolgibili tende da sole. Sulle scale e all’interno dei padiglioni sono raffigurate dame eleganti, alcune ancora impegnate nella salita mentre le loro ancelle le proteggono dai raggi del sole con graziosi ombrelli, altre già all’interno del primo chiosco sono intente a fare musica, bere thé o riposarsi mentre inservienti le mantengono fresche sventolandole. Sulla seconda scalinata verso l’alto troviamo meno personaggi e verso la cima uno intento a fumare mentre all’oblò del padiglione appare il volto di un uomo. Nelle quattro edicole che ornano le due bordure montanti sono racchiuse scene di genere, alcune di viaggio, mentre i sette cartigli che concludono le falde racchiudono animali, fiori e alberi che potrebbero essere mera decorazione oppure rafforzare il racconto a livello simbolico. L’intero schema narrativo sembra rappresentare un tema caro all’iconografia cinese così come lo troviamo riproposto nelle sete operate e stampate europee del Settecento dove viene rappresentato un personaggio – uomo o donna, sempre accompagnato da un inserviente che tiene aperto un ombrello – che si accinge a salire i gradini di una lunga scala che, tra eleganti recinzioni, conduce a un padiglione dove lo attende un altro personaggio[15]: una metafora del viaggio della vita, con tutte le distrazioni (bevande, musica, fumo) e le difficoltà (la salita), verso la meta del “Grande Tutto” taoista. L’ispirazione dalla filosofia taoista, così ricorrente nelle chinoiseries, trova conferma in alcuni aspetti della narrazione sul nostro scialle che accentuano i due principi fondamentali del Tao: il perpetuo e ininterrotto movimento (gli scalini) e il continuo mutare della realtà (i due chioschi sono diversi, le tende possono essere srotolate a livelli sempre diversi, il decoro degli scalini è sempre diverso, le cornici di edicole e cartigli sono tutte diverse e non speculari, il drago che si avviluppa alla cornice di un cartiglio mostra come anche il suo corpo possa mutare forma[16]), ma poi ne mancano altri, altrettanto fondanti, che inducono a considerare la possibilità che ci si trovi davanti a quel fenomeno vecchio di cinque secoli della totale incomprensione della simbologia cinese da parte degli occidentali, così ben illustrata dai diaspri lucchesi del Trecento. Quegli splendidi tessuti ci hanno lasciato narrazioni fantastiche originate dalla copia di sete cinesi così magistralmente mal interpretate da fornire veri capolavori disegnativi, come forse accade anche in questo scialle.
Naturalmente, esiste anche la possibilità che non si tratti di una raffigurazione così generica, ma della resa puntuale di una fiaba specifica e che la fanciulla che vediamo al centro in basso e che si accinge a salire venga rappresentata ancora in varie fasi del viaggio, sino quasi all’arrivo al padiglione più in alto, dove l’attende il “principe” affacciato all’oblò. Tenendo anche conto della simbologia fonetica che contraddistingue l’iconografia cinese, e che potrebbe svelare concetti ben precisi attraverso tutte le immagini – soprattutto quelle racchiuse nelle edicole che punteggiano i montanti laterali e nei cartigli delle falde – si moltiplicano le possibilità di lettura, al momento non ancora circoscritte.
Ma poteva un tale esempio di creatività artistica e raffinata tecnica tessile rimanere anonimo, come apparirebbe a una prima, pur attenta osservazione? No, doveva essere firmato, come era l’uso dei grandi produttori parigini a metà Ottocento. Nel nostro caso però, la firma non è immediatamente visibile poiché piccola, non collocata al centro della falda e addirittura camuffata. Forse ispirati ancora una volta dai taoisti che avevano creato un alfabeto esoterico comprensibile solo agli adepti[17], gli autori dello scialle fanno ricorso alla distorsione delle lettere dell’alfabeto latino, quel tanto che basta per mantenere l’effetto esotico, senza però rendere del tutto illeggibile l’iscrizione. Troviamo infatti nella falda inferiore un cartiglio attorcigliato attorno al collo di un piccolo vaso dove riusciamo a riconoscere le maiuscole latine “DUMALPASCIE”, acronimo che sciolto diventa “Duché-Malpas & C.ie”, ditta fondata a Parigi nel 1841 da Théophile Duché, Louis Narcisse Malpas e Dénis Clément Doucet, ditta che avrebbe dovuto operare per dodici anni, ma che cambiò ragione sociale già nel 1848 quando Louis Narcisse Malpas si ritirò. Tuttavia, altre combinazioni societarie seguirono dove ricorrono i cognomi Duché e Malpas a causa delle plurime alleanze, anche in contemporanea, tra parenti con gli stessi due cognomi, sino al 1854[18]. In questo caso lo scialle, date alcune caratteristiche tecniche specifiche, dovrebbe essere stato tessuto per partecipare a una delle due grandi esposizioni internazionali di Parigi e Londra, ed essere datato tra il 1849 e il 1851, e comunque non oltre il 1854. Se così fosse, la lettera dell’alfabeto latino che compare in lana azzurra al centro delle due cornici montanti più esterne e che può essere letta come “J” rappresenterebbe l’iniziale del nome di Jean-Fr. Brière, disegnatore in capo della Duché (père), a partire dal 1840[19]. Ma potrebbe anche identificare il committente di uno scialle con soggetto tanto particolare. Tutte queste possibili varianti di lettura dei diversi “segni” sono in corso di studio e verranno documentate in una prossima pubblicazione.
31 ottobre 2024
Scialle “Chinese Fairy Tale”
SCHEDA TECNICA:
cm. 360 (frange comprese) x 165
Composizione: “à grand pivot”, riserva bianca
Tessitura: al lanciato, cimata
Armatura: diagonale 3/1
Ordito: 40-45/cm. in seta a 2 capi, tinto a riserva in rosa cupo / bianco /rosa cupo
Trame: 38-40/cm. in lana + 1 trama di accompagnamento in seta bianca
Colori: 12, compreso l’ordito (bianco, nero, bordeaux, rosso, rosa cupo, rosa pastello, celeste, azzurro, verde chiaro, verde scuro, giallo oro, giallo limone)
Bordure montanti: a edicole e cartigli che incorniciano motivi decorativi o scene di genere
Bordure trasversali esterne: “arlecchino” (alt. cm.6), tessute insieme al corpo
Il motivo decorativo principale si ripete due volte nell’altezza dello scialle, con lettura a due opposti orientamenti
Il motivo decorativo principale non è equamente diviso lungo l’asse verticale: una lettura misura 10 cm. più dell’altra
Il decoro totale non è suddiviso in quarti speculari
Chiara Buss e Maddalena Terragni
24 luglio 2024
[1] A. Mackrell, Shawls, Stoles and Scarves, Victoria and Albert Museum, Londra 1986, p. 70, tav.5 [2] V. Reilly, The Paisley Pattern, Glasgow 1987, pp. 79-81 [3] The Paisley Museum and Art gallery, cat. n. 63/1964 [4] Ringraziamo il dr. Dan Coughlin che ha redatto una nuova scheda tecnica dello scialle dietro nostra richiesta, e ci ha inviato una copia del documento datato 2 agosto 2024. [5] Vd scheda tecnica di C. Buss e M. Terragni al f. 6. A questo proposito, ringraziamo la Fondazione Antonio Ratti di Como per averci permesso di analizzare lo scialle al microscopio elettronico presso il loro Museo Tessile. [6]Scialli dalla armatura complessa e dalle fibre preziose venivano tessuti a quattro o sei esemplari solamente, grazie a una orditura di circa 25 metri (M. Lévi-Strauss, Cachemires. La création française, 1800-1880, 2012, p.303.) [7] M. Lévi-Strauss, 2012, Op cit. pp. 300-301 [8] Ibidem, p. 302 [9] “armatura base twill 2/2 e trame 53/cm.”, in A. Cooper, Digital Commons, University of Nebraska, 2013, pp. 2-5 [10] M. Lévi-Strauss, Il cahemire. Scialli nella collezione Antonio Ratti, 1995, pp. 178-185 [11] Uno conservato presso il Royal Ontario Museum e l’altro nella collezione della Fondazione Antonio Ratti a Como. [12] Uno fa parte della collezione Etro, a Milano, e l’altro è conservato presso il Royal Ontario Museum. [13] Fotografia dello scialle è pubblicata alla voce “collezione” del sito del Metropolitan Museum di New York. [14] Notizie di prima mano cominciano ad arrivare in Europa a partire dalla cronaca di Lord Amherst del 1816, cui seguono pubblicazioni da parte di numerosi testimoni che visitano la Cina e ne descrivono architettura, costumi e usanze. [15] H. Honour, Chinoiserie. The vision of Kathay, Londra 1961, tav. 100 [16] P. Rawson, L.Legeza, Tao, la philosophie chinoise du temps et du changement, Parigi, s.d., p.20 [17] Ibidem, p. 19 [18] Louis Narcisse Malpas sposò nel 1836 Emélie Zoé Duché, figlia di Constance Duché, proprietario della già affermata ditta di “chales de l’Inde” Duché. Nel 1841 si unì al cognato Théophile per fondare la nuova compagnia Duché-Malpas & C.ie” (in M. Lévi-Strauss, op. cit. 2012, pp. 167-169). [19] M. Lévi-Strauss, op. cit. 1998, p. 58