Maddalena Giordano De’ Tomasi principessa di Forino

Giuseppe Bonito fu figura di primo piano e tra le più prestigiose nell’ambiente artistico napoletano del XVIII secolo. Nel 1751 fu nominato da Carlo III di Borbone “Pittore da Camera di S.R. Maestà”, nel 1752 entrò a far parte dell’Accademia di San Luca, dal 1755 fu Direttore dell’Accademia del Disegno, oltre a essere consulente per le attività di alcune Manifatture Reali, dal 1757 in particolare del Laboratorio di Arazzeria[1].
Già nelle sue opere giovanili, come nelle tele per San Domenico a Barletta (1737) e nella Cleopatra oggi presso il Museo di Capodimonte, Bonito mostra una particolare attenzione agli aspetti più intimi della ritrattistica. Sul finire degli anni Quaranta la sua pittura evolve rapidamente dal purismo del suo maestro, Francesco Solimena, verso una pittura più personale e sensibile alle correnti artistiche europee dell’epoca, raggiungendo risultati di straordinaria bellezza cromatica. A partire dal 1752, con la decorazione della volta della Basilica di Santa Chiara, perduta ma di cui si conserva il solo luminosissimo bozzetto conservato al Museo di Capodimonte, Bonito si afferma come uno dei massimi interpreti del Rococò napoletano[2].
I suoi migliori risultati sono però rintracciabili in un gruppo di ritratti, databili a partire dal 1749, di personaggi della famiglia reale (conservati oggi presso il Palazzo Reale di Madrid, il Museo del Prado, la Reggia di Casera e il Museo di San Martino) o della nobiltà napoletana. Dipinti improntati a soluzioni di straordinaria eleganza formale e di indubbia piacevolezza pittorica, come testimonia  il ritratto della giovane nobildonna Maddalena Giordano De’ Tomasi.

Nata a Capua nel 1740 da Alessandro de’ Tomasi e Giovanna Colonna, Maddalena crebbe circondata dal lusso e dall’eleganza della nobiltà. Sposò il duca Gaetano Giordano, divenendo una delle dame più apprezzate nei salotti aristocratici e a corte, dove godette dell’intimità della regina Maria Carolina d’Austria.
In quest’opera “Bonito ha sapientemente e delicatamente giuocato di tonalità armoniosissime. Sul fondo verdone, tenui risultano i capelli biondi, cresputi, e la carnagione d’avorio, mentre il busto d’un bianco sommesso e il mantello grigiastro, listato, d’una pelliccia scura, completano questa sinfonia cromatica, appena rialzata nel cappuccio rosato che ricade dietro le spalle e che un nastrino verde, svolazzante, lega capricciosamente.”[3]

Così nel 1926 Nello Tarchiani descrive il dipinto, già esposto in occasione della storica Mostra del ritratto italiano, dalla fine del secolo XVI all’anno 1861, tenutasi in Palazzo Vecchio a Firenze nel 1911, quando era nella collezione del conte Giuseppe Caracciolo. Si tratta di uno dei migliori esempi dell’abilità di Bonito nel coniugare eleganza formale e intimità privata della principessa, ritratta totalmente priva di gioielli come si confà al suo status di promessa sposa. Affascinante poi il contrasto tra la perfetta resa del volto della giovane donna, di cui Bonito restituisce il roseo, delicato incarnato, i raffinati tessuti delle vesti seriche, madreperlacee, e l’esibito non finito dello sfondo e di parte dell’abito: una sprezzatura che suggerisce una fruizione intima del ritratto, probabilmente un dono destinato al promesso sposo.


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