Il Maestro dello stipo del MET

Maestro dello stipo del MET

Stipo con anta a calatoia, Napoli, 1615 ca.
Legno di abete impiallacciato e intarsiato in ebano e avorio, maniglie in bronzo, angolari e maniglie in ottone bianco, cm. 35,5x51x32

Una delle principali industrie del lusso a Napoli, tra l’ultimo quarto del Cinquecento e il primo del Seicento, fu quella della costruzione di stipi (all’epoca chiamati scrittoi): piccoli mobili decorati da tarsie in legni policromi, alla maniera dei maestri di Augsburg, o in ebano e avorio. Attivi in questa attività furono soprattutto maestri ebanisti tedeschi e olandesi, stabilitisi nella capitale del Viceregno, che si concentrarono, nell’esecuzione di mobili decorati da tarsie in ebano e avorio, assai richiesti anche al di fuori dei confini del Viceregno. Oggetti suntuari, decorativi, solo marginalmente d’uso, la cui presenza, assieme a strumenti musicali, preziosi tappeti e tessuti, bronzetti dall’Antico nei dipinti di Bartolomeo Bettera ed Evaristo Baschenis, ha contribuito a diffondere il convincimento storiografico che si trattasse di una produzione Nord italiana. Convinzione rafforzata, erroneamente, dal fatto che questi mobili divennero piuttosto comuni a fine Ottocento in Lombardia, grazie ai restauri e alle copie di cui fu un vero specialista l’ebanista milanese Ferdinando Pogliani.
Che qualche maestro nordico possa essere stato attivo anche nelle città del Nord Italia è ragionevole pensarlo, ma il centro di produzione di questi mobili nella penisola fu senza dubbio Napoli, come ha dimostrato nel 1978 Alvar Gonzàlez-Palacios e come confermano alcuni più recenti ritrovamenti archivistici.
Il primo documento oggi noto che getta una luce sull’attività di questi maestri, risale al 1575. Quell’anno un maestro specializzato nella costruzione di questi piccoli mobili, Ludovico Menhart, muore a Napoli, dove aveva bottega assieme al fratello Geremia, lasciando quest’ultimo e la vedova, Lucrezia Montorio, suoi eredi. L’inventario che fu stilato per l’occasione da altri due maestri ebanisti, Ioannes Fersenauer e Theodoro De Voghel annovera un centinaio di questi mobili decorati da tarsie in legni policromi e in ebano e avorio.  Il documento ci fornisce numerose informazioni sulle caratteristiche di questi mobili e sul loro valore. Ci informa anche come la loro produzione e il loro commercio – che comprendeva anche mobili provenienti dalla Germania – fosse a Napoli assai florido. Come florido era ancora un ventennio dopo, quando, tra il 1597 e il 1616, un maestro ebanista noto col nome di Iacobo Fiamengo, eseguì, assieme a un incisore di avori di nome Giovanni Battista De Curtis, alcuni stipi in ebano e avorio, resi noti nel 1978 da Alvar Gonzàlez-Palacios, che costituiscono i capolavori di questo genere di arredi.[1]
Di pochi anni dopo sono alcuni documenti, presso l’archivio di Stato di Napoli, risalenti al 1621, che ci forniscono ulteriori notizie su questa industria. Si tratta delle bozze di uno statuto del “Monte dei Magistri artis de scrittoriari di ebano, avolio, legnami, oro, argento, et altre sorte di mitalli”.[2] Trentasette maestri attivi a Napoli sottopongono al Governo la bozza costitutiva di un “Monte”, ossia una corporazione, per regolare l’esercizio della professione in città, comporre eventuali controversie “per loro quiete e beneficio della detta arte”, e non ultimo assicurarsi mutua assistenza in caso di malattia.
La proposta di statuto è regolata da 16 capitoli e il “Monte” retto da quattro governatori la cui carica sarà rinnovata ogni sei mesi. Dei trentasette maestri che promuovono l’istituzione del “Monte”, undici sono “foresti”- tedeschi e francesi, sembrerebbe dai cognomi:

“Magistri Arti de scritteriari di ebano, avolio, legnami, oro, argento et altre sorte di mitallo abitanti in hac civitate Neapolis Paschal de Simone, Joanne Schrot, Elia Anello, Joannes Vechman, Velchior Loth, Bartolomeus Prisco, Augustinus de Persico, Francisco Conte, Nicolaus Crhot, Joannes de Castro, Leo Massa, Franciscus Foglia, Joannes Vathiere, Andreas de Pare, Pulus Schisano, Petros Diliberto, Simon Anellos, Angelons Nardus merolla, Sergius Serviles, Albertus Nich, Franciscus Massa, Jacob de bella, alias Chirico, Joannes Miler, Thomas de Puolo, Sebastianus de Marino, Natale Spano, Andreas de M[?], Antonius de Gaudio, Paulus Myslich, Emanuel Giglio, Joannes Rollomen, Joè de Glieci, Franciscus Bergione, Ferdinandus Vennaccia, et Mattheus de Turre.”

Di nessuno dei trentasette firmatari sono oggi note opere, ma è tra questi maestri che crediamo si celi l’ignoto esecutore di tre mobili con tarsie in ebano e avorio: il primo presso il Metropolitan Museum of Art di New York (catalogato come opera del Nord Italia), il secondo conservato al Victoria and Albert di Londra (catalogato come lavoro tedesco) e il terzo di cui si scrive. Tre esemplari rappresentativi dell’opera di un maestro, probabilmente tedesco, attivo a Napoli, che, allo stato degli studi, possiamo chiamare, per comodità, Maestro degli stipi del MET.

Maestro dello stipo del MET, Stipo. Napoli, 1615 ca. Milano, inOpera

Sono accomunati dalla medesima tipologia di stipo a scatola, con l’anta frontale che si apre a calatoia ad uso di scrittoio, da una identica cassettiera interna in cui dieci cassetti sono disposti attorno ad un piccolo vano centrale celato da una portina, da misure simili, e dal medesimo materiale con il quale sono rivestiti: un ebano rosso di cui vengono usate anche le parti chiare per creare un insolito e particolare effetto decorativo.
Ricorre nei tre mobili anche la medesima decorazione minuta di catene e pilastri della cassettiera interna. Tarsie eburnee rappresentanti scene di una mitologia misteriosa e fantastica, incorniciate da riserve angolari decorate da racemi in avorio del medesimo disegno, accomunano l’esterno dell’anta del mobile del MET e di quello qui studiato. Anche le tarsie sui frontali dei dieci cassetti, raffiguranti racemi abitati da uccelli sono del tutto simili in questi due mobili.

Maestro dello stipo del MET, Stipo. Napoli 1615 ca. New York, Metropolitan Museum of Art

Sulle portine che celano i vani centrali trovano posto l’allegoria della Sapienza divina e della Fortezza: entrambe derivate dall’Iconologia di Cesare Ripa, e incorniciate da piccole riserve e fitti girali. Anche la decorazione dell’interno dell’anta era in origine del tutto simile; quella del mobile del MET fu arricchita nel corso della seconda metà dell’Ottocento – probabilmente a Milano da Ferdinando Pogliani – con l’aggiunta, nelle due riserve centrali, di tarsie di gusto Neorinascimentale.

L’interno del mobile del V&A, che purtroppo ha perduto l’anta – rimpiazzata nel corso dell’Ottocento da un pannello decorato da semplici filettature -, è caratterizzato da tarsie rappresentanti gustose scenette di caccia derivate da incisioni tedesche di metà Cinquecento – ad esempio quelle stampate ad Augsburg  da Jost Hamman -, già impiegate nei grandi stipi di fine Cinquecento da Iacobo Fiamengo e Giovanni Battista De Curtis.

L’esterno dello stipo inOpera

Cose dire invece delle due le tarsie sull’esterno delle ante dei mobili del MET e di quello di cui si scrive?  In quest’ultimo una figura femminile nuda cavalca un mostro marino (una sorta di scorfano gigante), emerso da un mare da cui sbucano anche pesci poco rassicuranti dalle bocche spalancate. Dall’acqua emergono anche due figure maschili a mezzo busto: una crestata che brandisce una grande conchiglia e una cornuta, decisamente diabolica. In un cielo con una fila di piccole nuvole arrotondate, volano un drago, vari uccelli e una sorta di zanzara gigante. Sulla destra sorge una città turrita a strapiombo sul mare.

L’esterno dello stipo del MET

Nella tarsia del mobile del MET compare il medesimo drago volante che qui insegue una figura, anch’essa volante, che regge uno scudo e brandisce una sorta di scimitarra, forse nel tentativo di sconfiggere l’identica zanzara gigante presente nel mobile precedente. Ancora una volta dal mare emerge un mostro marino. Una figura femminile nuda osserva questa scena dietro alcuni alberi; sulla sinistra è un’altra città turrita a strapiombo sul mare simile alla precedente.
Che significato hanno queste figurazioni che non trovano modelli iconografici nemmeno nelle più stravaganti incisioni tedesche del secondo Cinquecento, senza paragoni nella coeva pittura e mai viste in altri mobili del tempo? Crediamo si tratti di un immaginario ispirato a quelle figurazioni, che dovevano apparire misteriose ed enigmatiche, dipinte, intarsiate, intagliate, sugli stipi che cominciarono a giungere in Europa, dalle colonie a partire dalla fine del Cinquecento. Pensiamo ai mobili noti come indo-portoghesi, a quelli provenienti da Goa, da Gujarat o dal Giappone che grande diffusione ebbero soprattutto nel corso del Seicento. Rarità preziose e appartenenti a culture ignote, circondate da un’aurea di mistero che dovettero affascinare anche il nostro ignoto Maestro napoletano.


Per quanto riguarda la datazione di questo piccolo corpus, una data di poco posteriore il 1613, è la più verosimile. Quell’anno fu stampata a Siena una nuova edizione dell’Iconologia di Cesare Ripa, accresciuta di duecento nuove tavole, in cui compaiono le figurazioni più simili a quelle visibili sui due mobili, della Sapienza Divina e della Fortezza. La Sapienza divina del mobile di cui si scrive, è tratta con assoluta fedeltà all’incisione; la Fortezza di quello del MET non presenta il ramo di rovere che Ripa ritiene uno dei segni distintivi di questa figura assieme alla spada e allo scudo. E’ solo nell’edizione del 1613 che la guerriera simboleggiante la Fortezza, come nella tarsia presente sul mobile, tiene lo scudo poggiato a terra; nelle immagini di tutte le altre edizioni del celebre volume, lo scudo è invece sempre imbracciato.


[1] A. Gonzàlez-Palacios, Giovanni Battista De Curtis, Iacobo Fiamengo e lo stipo manierista napoletano, in: “Antologia di belle Arti”, 2, 1978, 6, pp. 136-148 [2] A.S.N. Cappellano Maggiore, Statuti e congregazioni, FS.22/1204, Inc.23